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…Questa è la mia famiglia in “Arte”, la congrega della quale io sono la Vecchia, la Sacerdotessa anziana della Dea…

venerdì, maggio 13, 2005

«L’artista e la croce. Caravaggio e Pasolini»


"L’accostamento di Pasolini a Caravaggio è senza dubbio spericolato per la distanza che li separa, anche se nell’eterno ritorno delle cose e della poesia una giustificazione in più si può trovare.
[…] Al di là del loro tempo così diverso e lontano, furono entrambi artisti di un tempo di crisi, sul crinale che separa una vecchia era da una nuova sul punto di nascere. Con evidenti e fondamentali differenze: Caravaggio ancora grande classico, l’ultimo straordinario classico della tradizione, come Tasso lo era stato nella poesia; Pasolini poeta novecentesco con il sentimento dell’antico e il senso tragico della modernità, non immune dall’ideologia, ostaggio del suo tempo quando perde la forma e la lingua.
Nella vita furono entrambi grandi interpreti del loro tempo, anche se l’eccellenza assoluta dell’arte caravaggesca non è neppure paragonabile a quella pasoliniana spesso informale e prolissa, senza misura. Entrambi tuttavia furono nella vita figure smisurate rispetto al loro tempo. Artisti entrambi irregolari, se non proprio eretici, dal temperamento irruento e non alieno dallo scandalo, perfino coinvolti in inchieste giudiziarie e perseguitati dalle incomprensioni, alle prese con la «grande guerra santa», come islamici e indù definiscono il percorso interiore e spirituale degli uomini. Perché controcorrente lo furono certamente entrambi, forse anche peccatori, come tante figure bibliche, da Abramo a Mosè. Nei loro visi segnati e nervosi era già segnato un destino.
Li unisce tuttavia quella povera, misteriosa morte consumata su un litorale, davanti all’orizzonte del mare, con l’ultima rivelazione vissuta non in un letto, ma nella natura, loro che avevano avuto come maestra la natura. Non in pace, ma in guerra, perché in guerra si era consumata la loro vita. E tuttavia una morte semplice e reale come la morte di un uomo qualsiasi, un evento molto umano e non tragico, nonostante le tante interpretazioni che ne sono derivate. E neppure emblema o celebrazione di una morte dell’arte, ma soltanto di una vita torturata e intrepida conclusa prima del tempo naturale.
Caravaggio muore non lontano da Roma e in terra toscana, vicino al Mar Tirreno, perseguitato e inseguito come un delinquente, martire come già deve essersi sentito quando si era dipinto così vicino a Orsola che sia avvia la martirio. Ha trentasette anni, come il divino Raffello, poco più dei canonici trentatré anni di Cristo, ma nasce alla vita vera nella memoria degli uomini, come quel raggio di luce che aveva fatto entrare nell’oscurità di una stanza con un senso di redenzione.
Anche Pasolini muore vicino a Roma, davanti allo stesso mare, alla foce del Tevere presso Ostia, nome che sa di agnello sacrificale, dove andavano in un lontano passato le anime salve e dove Agostino aveva perso la madre Monica. Quando Pasolini muore, nel 1975, lui «più moderno d’ogni moderno», sigilla la chiusura di un’epoca e di un secolo, ben prima del reale compimento cronologico. Assiste a tutti i rammodernamenti cruciali della sua epoca: il 1963 nella letteratura, il 1965 nella liturgia ecclesiastica con l’abolizione del latino, il 1968 nella politica; vede la decadenza e il crollo spirituale del mondo conosciuto nell’infanzia e anche lui si adegua e spinge il pedale della protesta che in quel decennio appariva come il primo dovere etico dell’uomo. Entrambi chiudono un’epoca, con la drammaticità che questo comporta. Caravaggio l’epoca classica dell’arte, come qualche anno prima Torquato Tasso, sepolto in cima al Gianicolo, aveva chiuso la grande stagione della poesia italiana. Pasolini chiude l’epoca della modernità e un secolo. E forse per questo furono entrambi sfregiati, perfino nel fisico.
Caravaggio e Pasolini sanno che devono scendere lungo l’Italia, andare dal nord dove sono nati verso il sud, essere sempre più naturali. Vanno a Roma, con lo stesso desiderio di fratellanza con le persone del popolo, con lo stesso furore e disperata vitalità, la stessa fretta di depositare il loro lavoro e di trovare una lingua. Quando Caravaggio arriva a Roma, si sta chiudendo la cupola di san Pietro, il ricordo dell’altro Michelangelo è vivissimo e la città si sta riempiendo di angeli nelle chiese e nelle vie. Le figure d’adolescenti, i garzoni d’osteria e i ragazzi di strada e di vita che incontra tra un’osteria e un ponte, tra uno scontro e una sassaiola, sempre tra San Luigi dei Francesi e Trastevere, sono gli stessi dei quadri. Sono ragazzi belli e gagliardi anche se già minacciati dall’ombra e dalla malattia, come il Fruttaiolo e il San Giovanni Battista, dipinti come fossero veri e non come fossero belli. Sono figure vere, popolane bellissime e donne sfatte del rione, come la Madonna morta e gonfia d’acqua o la stupefacente Madonna davanti alla quale si genuflettono pellegrini miseri che da poco sono arrivati a Roma per il grande Giubileo del 1600, stupiti da quella concretissima visione.
Quando Pasolini arriva a Roma, nel gennaio del 1950, in pieno Giubileo, scopre, accanto alla Roma delle cupole e del Tevere, la Roma delle baracche e dei poveri che parlano in romanesco, con i ragazzi pieni di allegria e di una vita violenta, tra Ponte Mammolo e la Garbatella, ragazzi belli come i giovani caravaggeschi che suonano o che hanno tra le mani cesti di frutta. Allievo di Roberto Longhi, Pasolini, che si traveste cinematograficamente da Giotto, con gli stessi abiti e la fascia bianca sulla fronte, li aveva già visti quei ragazzi nella Fucina di Vulcano dipinta da Velázques, che nel suo soggiorno romano aveva preso dalle borgate romane i suoi modelli.
Tuttavia Roma da sola non li sazia, entrambi cercano il sud greco e mediterraneo, l’Africa e il fondamento di Roma nell’Africa, come altri avevano fatto, a cominciare da Petrarca e poi Rimbaud. Caravaggio scende a Napoli, si ferma nel luogo dove sono accolti poveri e infermi, nel cuore di Spaccanapoli; va verso terre arabe e greche in Sicilia, e si spinge fino a Malta. Pasolini cerca in Africa quello che non trova più nella vecchia Europa e lì sposta anche la rappresentazione delle Orestiadi.
È in Africa che era nata, prima ancora che a Gerusalemme, l’idea egiziana di una vita vera tramite l’assimilazione a un dio sofferente. E le loro opere prendono la direzione del sud mediterraneo, là dove l’umanità è più dimessa e diseredata, dove Roma si è allargata comprendendolo. La redenzione, la luce nell’ombra, forse potranno trovarla laggiù, lontano dal centro.
Il miracoloso percorso di Caravaggio, dall’empirismo nordico all’umanità popolare del sud, non può ripetersi con Pasolini, figlio del suo tempo, che cerca nel sud un mito ancora romantico e improbabile, lontano dal grande e autentico meridione greco caravaggesco.Tuttavia l’essenza cristologica del loro lavoro è innegabile. La croce è il segno presente nell’opera di entrambi…"

Tratto da “L’artista e la croce” di Gabriella Sica Ed. Marsilio